Negli ultimi tempi mi capita raramente di aggiornare il blog, me ne scuso. L'ho un po' abbandonato come un vecchio amico, a cui vuoi bene, ma che, per un motivo o un altro, ti scordi di andare a trovare. La maniera migliore per ricominciare credo sia parlare a briglia sciolta, dare libero sfogo ai propri pensieri, futili, ma pur sempre sinceri:
Volevo postare Dazed and Confused, ma ho cambiato idea: è
riduttivo ricordare Jake Holmes solo per quel dannato brano. "The above
ground sound of J. Holmes" contiene tanti piccoli gioiellini, ogni brano
ha una storia a sé, l'argomento della narrazione cambia, si alternano atmosfere
rarefatte (Signs of Age, Did You Know) ad altre più acide (Hard to keep my mind
on you), il tono narrativo però è sempre lo stesso, gentile ed educato, come
quello di un cantastorie della porta accanto. Il menestrello è stato sostituito
dalla chitarra, le storie raccontate da J. Holmes sono unite da un unico filo
rosso: un'attenzione per il suono d'insieme, ogni cosa è al suo posto, regna
l'armonia.
" This
is a vacation, a casual question that if not answered won't have to be
re-asked. Sometimes people need to go. They leave gently, and you just wait for
thei return"
Jake Holmes
racconta "Penny's"
Durante gli anni del liceo Rivers Cuomo mangiava al tavolo
degli sfigati o dei nerds, non ne sono sicura, magari mi sbaglio, ma non penso.
Cuomo da adolescente me lo immagino con gli occhiali e assiduo frequentatore
del corso pomeridiano di letteratura angloamericana e di chitarra, la cameretta
è piena di libri, appunti, strumenti musicali e poster di band heavy metal.
Ecco, Cuomo non era quello che potremmo definire un tipo popolare, anzi
probabilmente i fighetti della squadra di football lo prendevano in giro.
Nonostante ciò, nel corso degli anni novanta Cuomo è riuscito a tirare fuori
dal cilindro magico album come il Blue album e il Green album, con cui ha
conquistato la critica e il pubblico, anche coloro che lo sbeffeggiavano. Credo
sia qualcosa di speciale, quasi una favola dei tempi moderni.
I Plastic Cloud, gruppo psichedelico canadese, fanno
l'occhiolino e anche qualcosa di più alla scena statunitense. La loro proposta
pecca di poca originalità, si rifà a stilemi ben consolidati, non c'è
improvvisazione o una qualsivoglia forma di sperimentazione. La band ripropone
con abilità e stile i topoi del genere. Nella forma i Plastic Cloud sono
conservatori, difendono strenuamente un'idea di musica psichedelica, la
esplicitano a chiare lettere, nei contenuti il quartetto canadese dà libero
sfogo alle proprie fantasie.
Souvlaki è uno dei pochi dischi che non mi stanco mai di
ascoltare, lo metto in sottofondo mentre faccio altro oppure lo uso per
rilassarmi e prendermi un attimo di pausa dallo studio. Un disco per tutte le
occasioni, un po' come "A storm in Heaven" dei Verve e
"Conqueror" dei Jesu o " Ocean Rain" degli Echo &
the Bunnymen. In questi album, seppur diversi, trovo una tranquillità di fondo,
un vagheggiare leggiadro.
Liam Lynch è un gradino sotto, forse anche qualcuno di più,
Weird Al Yankovic, ma sa il fatto suo. Non raggiunge i livelli del maestro,
inarrivabile e lontano anni luce. Si limita nel suo piccolo a metter in scena
un piccolo treatino della parodia, senza troppe pretese o ambizioni. "Fake
David Bowie Song" un sorriso lo strappa sempre.
Le cose si perdono e poi si ritrovano, così è stato per le
registrazioni di Sibylle Baier, attrice e cantante folk tedesca. Tra il 1970 e
il 1973 la Baier con la sua voce si diverte a dipingere paesaggi sulla tela di
un registratore. Un passatempo fulmineo e fugace, il tempo passa e la Baier si
dedica al cinema e poi alla famiglia. Le registrazioni rimangono sepolte tra la
polvere di qualche scaffale fino al 2006, quando esce Colour green, raccolta
delle vecchie registrazioni.
"I believe in you" è una canzone sussurata, dal
tono trafilato e dimesso. Evita facile sensazionalismi e pomposità, sposa un via
minimalista, una semplicità, complessa nella sua ricercatezza. I Talk Talk sono
degli artisti con l'A maiuscola, possono piacere o meno, ma credo non gli si
possa negare un percorso creativo di fondo. Dal synth-pop di "The party is
over", album dopo album, hanno seguito una strada e passo dopo passo
l'hanno percorsa, senza guardare in faccia a nessuno, solo se stessi e il
proprio desiderio di rivincita.
Forse esagero, ne sono cosciente, ma trovo che Elliott
Smith, in quanto artista, non sia replicabile, non ci sarà mai un nuovo Elliott
Smith, per dire. Smith non ha inventato niente, ma ha dato al cantautorato
americano un carattere espressionista, trasferendo l'attitudine lo-fi della
scena rock indipendente anni novanta nelle proprie composizioni con la
chitarra.